Everyday is exactly the same

Prima del servizio si ripetono sempre gli stessi suoni.
La cameriera che affonda il coltello nella crosta del pane e ne taglia fette imprecise (è ancora tiepido, la mollica umida accoglie la lama senza lasciare che prenda una direzione, bisognerebbe avere il polso forte, i movimenti inflessibili).
L’asta delle comande che viene sistemata sul pass, il precipitarsi delle sue biglie di vetro lungo il metallo.
La musica che viene cambiata, da quella che ascoltiamo mentre facciamo linea alla playlist ufficiale.
Il tintinnare di qualche forchetta sulla ceramica di qualche piatto, quando qualcuno deve zittire lo stomaco che gorgheggia e non può aspettare il pranzo del personale, alle 15.
L’acqua che scorre nel lavandino, mentre mi sciacquo il viso e mi lavo le mani, mentre mi guardo allo specchio chiedendomi perché queste occhiaie non se ne siano ancora andate - non se ne andranno mai, forse.
Prima di ogni servizio ripeto sempre gli stessi gesti.
Riannodo lo chignon, cercando una via di mezzo fra il dolore dei capelli troppo tesi e l’elastico lasciato eccessivamente morbido, che lascerebbe sfuggire qualche ciocca al primo movimento.
Mi stringo il grembiule in vita.
Allineo gli oggetti sul pass: il campanello, gli olii, il sale, l’erba cipollina tagliata fresca.
Guardo fuori, seguo le ombre degli edifici sul muro di fronte alla cucina. 
Fa freddo, ma c’è il sole: lavoreremo mediamente, sceglieranno per lo più primi. 
Mi riempio il bicchiere più grande di acqua frizzante.
Prima di ogni servizio faccio sempre gli stessi pensieri, su questo lavoro composto da gesti, priorità, ritmi sempre uguali e sul loro quotidiano azzerarsi, come se nulla fosse stato portato a termine, come se ogni giorno fosse tutto da rifare senza traccia di ciò che è stato assemblato, scelto, creato il giorno prima.

Ogni giorno ho bisogno degli stessi riti per sopravvivere alla quotidianità.

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