Ma ci pensi, come dev'essere.

Domani esce la nuova Michelin.
Chissà quanti cuochi non dormiranno stanotte. 

L'anno scorso, arrivò alla prima stella un ristorante dove lavorava uno dei ragazzi che erano passati in cucina da me. Gli scrissi. Mi veniva da piangere anche solo a immaginare come ci si potesse sentire, ad essere in un ristorante che raggiunge quel traguardo. Averci buttato la propria vita e, poi, un giorno di novembre, sapere che la Rossa ha chiamato.

L'anno prima, lavoravo in un ristorante che rincorreva la prima stella. I tre cappelli de L'Espresso erano arrivati, i più giovani ed esaltati ci speravano. Lo chef non si esprimeva, consapevole. Il capo partita ai primi, che l'anno prima era stato da Ciccio Sultano ed era il ventunenne più talentuoso che avessi mai incontrato in una cucina, scherniva gli altri: "Voi non sapete nemmeno cosa sia, la Michelin."
Alle dieci di quella mattina eravamo tutti sepolti in cucina, nel mezzo delle preparazioni, nessuno fiatò prima della fine del servizio serale. Andammo al solito pub a bere e a guardarci i video della premiazione:
- Io li ci ho mangiato!
- Conosco un ragazzo che ci lavora.
- Da lui andrei anche solo a lavare i piatti.
- Ma ci pensi, Agne', come dev'essere?
Fumavamo fuori, seduti sul marciapiedi, morti di stanchezza e, nonostante tutto, un po' euforici.
I cuochi sono un po' tutti fratelli. Qualcuno aveva ricevuto la ricompensa per tutto.
Eravamo felici anche solo per quello.

L'anno prima, ancora, eravamo in auto, stavamo andando a pranzo da Philippe Léveillé, un due stelle vicino a Brescia. Ero cuoca da pochi mesi, da pochissimo avevo intuito che cosa significasse davvero quella guida, da un po' mi ero abituata ai discorsi dei colleghi del ragazzo con cui uscivo allora, che non aveva mai lavorato sotto le due stelle.
- Cazzo, che ore sono?
- Boh, le 10.30... 10.37.
- Agnese, la Michelin!
Parcheggiò alla prima piazzola di sosta. Ci guardammo la diretta, in mezzo a un'autostrada.
Io rimanevo un po' a lato, ero ancora a un livello in cui pensavo, al massimo, di poter diventare brava a mantecare la pasta. Non capivo ancora cosa facesse brillare gli occhi di quelle persone, che cosa potesse significare indossare una giacca con quel simbolo ricamato, in rosso.
Lavoravo in un ristorante dove non esistevano partite, dove la gerarchia veniva denigrata e il mio chef mi offriva le canne in pausa. 

- Di che hai paura, Agnese? Le carote sono carote anche nei due stelle Michelin.
- Io non ho paura.
- E, allora, perché, cavolo, non vieni a lavorare da noi? Non entri a far parte della famiglia? Non ci metteresti nulla, tu, a diventare capo partita.
- Hai ragione.
- Una volta che sei stata là dentro, non hai più paura di niente. Lavorare in uno stellato è come ricoprirsi le braccia di tatuaggi. Ti mette una fierezza, un orgoglio, che cammini a testa alta anche quando sei in metro.
Era estate, eravamo su Corso Buenos Aires, avevamo appena pranzato da Leemann.
Ancora oggi, quando mi trilla il cellulare e vedo il suo nome sullo schermo, mi sembra di aver deluso qualcuno, di non aver adempiuto a un mio dovere, di non essere stata all'altezza.
Eppure, continua a cercarmi.

E ora, ora che ogni mattina vedo una stella Michelin disegnata su un foglio di carta, appeso alla bacheca per schernirmi ogni volta che alzo lo sguardo, ora che la mia preoccupazione è di tutt'altra natura, ora che devo gestire, organizzare, mantenere l'ordine, ora che ho di nuovo una mia brigata, ora che ogni giorno cerco di mettere tutto l'amore possibile in quello che devo fare - perché, un discorso è ciò che devo fare, un altro è ciò che posso fare -, per quanto semplice possa apparire, ora che la Michelin è lontana-lontanissima, ora che non ho nemmeno dei colleghi con cui scherzarci fra un sacco di patate e l'altro, ora. 
Ora so benissimo che l'unico modo per rinchiudermi dentro a una cucina per tutto quel tempo e per tutta quella fatica sarebbe perdere ciò che ho. Dovrei essere di nuovo distrutta per fare quel salto.
Non avere nulla da lasciar fuori.

Eppure mi manca. Mi manca tutto.
La toque di carta, che prima di entrare in una cucina seria per la prima volta me n'ero comprate un paio, per essere disinvolta e sicura la prima mattina.
La competizione.
- Agnese, lui starà ai secondi con te.
- Qui, c'è il mio tagliere. Io lavoro da qui a là, la stufa è mia. Puoi metterti dove trovi posto. Per iniziare, puoi pulire i bordi dei pentolini con le salse.
Lo stress.
La fratellanza. Come quando alle 9 del mattina non ci avevano ancora aperto il ristorante e noi rimanevano fuori, in attesa: 
- Come siete messi, antipasti?
- In merda, come sempre. E voi?
- Se fra dieci minuti non sono in cucina posso anche iniziare a scappare.
Le lacrime di notte. Le lacrime nascoste dietro alle celle, mentre fingevo di pulire il muro. Le lacrime davanti allo chef, nel suo ufficio.
- Devi essere più forte, Agnese, io so che puoi farcela.
- Sì, chef.
La gerarchia.
- Hai visto cos'ha combinato uno dei tuoi commis?
- Sì, chef!
- Non l'hai insultato?
- No, chef.
- Tu, vieni qua, di fronte a lei. Insultalo, ora.
Crescere a insegnare agli altri.
- Io non so se ce la faccio, Agnese.
- Certo, che ce la fai. Se la prendono con te perché sono delle merde, non perché tu non sia capace.
I pomeriggi trascorsi a mettere in ordine ed inventariare, a mani nudi, i cinque freezer del magazzino.

Ogni tanto, a metà mattina, vado in bagno, in quello dei clienti e mi sciacquo il viso per rinfrescarmi un attimo, per schiarirmi i pensieri.
Mi guardo allo specchio. La giacca pulita, il grembiule annodato stretto, le maniche ripiegate con ordine, come ho imparato. Senza toque, i capelli in uno chignon, il mascara sulle ciglia, la pelle ben idratata. Le mani un po' segnate, ma nulla in confronto a qualche tempo fa. Gli avambracci che portano ancora i segni di quella cazzo di piastra da Taglio [due anni fa].
- Noi andiamo in guerra tutti i giorni. -, ci dicevamo.
La guerra è diventata un po' troppo facile, ora.



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