Persefone.

Mia sorella ha diciotto anni, indomabili capelli biondi e azzurri, rasati ai lati, e un paio di quegli occhi che pensi quasi siano impossibili: verdi oliva attorno alla pupilla, blu all'esterno, con un anello color ocra a contornare l'iride. La guardo e mi pare così piccola.
A diciott'anni, io, ero completamente diversa - me lo ripete spesso anche mio padre, con la solita, disinibita, imparità. Forse è che io avevo già iniziato a lavorare da due anni, penso.
La realtà, poi, è ben più profonda e sensata, come sempre. Io sono cresciuta con due genitori disastrati e disastrosi, ma che - almeno - mi hanno cresciuta, lei non è stata cresciuta da nessuno.
I miei erano troppo occupati a rinfacciarsi rancori, tradimenti, figlie anoressiche e figli troppo taciturni e asociali. E io, come sorella maggiore, sono stata tutt'altro che un riferimento: spiare i miei diari e leggere i versi delle canzoni che mi appuntavo ovunque può solo averle dato pessime idee.

Giriamo per negozi e mi ricorda me, quando da adolescente andavo a fare shopping con mia cugina più grande o con qualche amica che, per qualche inspiegabilmente assunto motivo, ritenevo avesse buon gusto. Mi osserva passare in rassegna gonne e pantaloni con sul viso l'incredula espressione di chi ancora non si spiega come si arrivi a saper scegliere, a saper capire cosa sia bello e cosa non, cosa ci valorizzi e cosa non.
Vorrei dirle che no, io non lo so ancora. Basterebbe che uscisse dall'aura di cieca ammirazione per accorgersi che gli abiti che analizzo e che mi entusiasmano sono tutti abiti non adatti alla mia corporatura. Ma i miei, insostenibili, ideali sono un altro discorso.
- Ma come, non prendi niente?
- Uhm, no. Alla fine, sai cos'è triste dello smettere di andare a scuola e iniziare a lavorare?
- No, cosa?
- Inizi ad adottare delle divise: per risparmiare tempo, per essere sicuro di te, per essere sempre adatto a un determinato ambiente o situazione. Pensa: quante volte mi hai visto addosso questi jeans?
- Forse tutte le volte in cui ti ho vista qui a Milano. A parte una, in cui ne avevi un paio neri.
- Certo: io, alla fine, devo mettermi qualcosa di pratico la mattina, di corsa, per farmi dieci minuti di bici; poi indosso la divisa e mi rimetto i miei abiti solo la sera, per tornare a casa. Questi jeans li adoro perché con le sneakers sono comodi per andare in bici, poi, se devo uscire, magari mi basta mettere degli stivaletti - tipo questi - e un maglione un po' più carino e sono serena.
Ride, un po' incredula del fatto che sia tutto così logico.
- Quindi, no, purtroppo non ha senso che io spenda 200 euro in vestiti che, magari, mi stiano anche bene, ma che userei due volte all'anno. Ciao, ciao, pantaloni in velluto.

- Vuoi un bubble tea?
- Un cosa?
- No, non lo conosci? Tu adoreresti la tapioca!
Andiamo al bubble tea in Duomo e le illustro come funziona. Come previsto, rimane affascinata da quelle perle gommose.
- Però senza zucchero perché sono in scarico di carbo.
Mi si drizzano le orecchie.
- Scusa?
- Eh, sì, ho ricominciato ad allenarmi.
Mia sorella praticava MMA, due anni fa.
Parlottiamo un attimo del suo protocollo di allenamento, mentre aspettiamo i nostri tè.
- Anche a te sono venuti dei gran dorsali.
- Il marchio di fabbrica della nostra famiglia sono i capelli biondi e la corporatura esile, sì. - dico, non sicura di essere riuscita a renderlo positivo.

Attraversiamo piazza Duomo giocando con le perle scure dentro ai nostri bicchieri - io un pumpkin spice e lei un london tea -, chiacchierando.
- Poi c'è una cosa che mi fa un po' piangere, ma alla fine cerco sempre di ridere quando accade.
- Cioè?
- Ogni tanto parlo di te con gli amici della mamma e loro mi chiedono "Ma Agnese chi è?", come se lei non avesse mai detto nulla di te.
- Non sanno che hai una sorella maggiore?
- No, pensano che solo io ed Ale siamo i figli.
Rimango impassibile, a far vagare lo sguardo per la piazza, sorseggiando la mia dose quotidiana di cannella e zucca.
- Se ha smesso di fare male a me, non deve far male nemmeno a te, okay? Io rimango tua sorella anche senza che lo sappiano gli altri.
Forse sono stata un po' netta, ho usato lo stesso tono di voce di quando devo rimproverare i ragazzi in cucina e non vorrei. E' il tono di voce che adotto quando cerco di essere inconfutabile, quando vorrei che nemmeno si riflettesse su quelle parole, che venissero prese come un dato di fatto, il tono di voce di quando voglio apparire così solida da suscitare piena fiducia.
Vorrei che lei non avesse dubbi sul fatto che io ci sono anche se mia madre nega la mia esistenza.

- Devo confessarti una cosa.
- Uhm?
Appendo la borsa al gancio di un ripiano, mi tolgo il cappotto e lo sdraio su un appendiabiti.
Sfilo una pelliccia leopardata - grigio e azzurro carta da zucchero - dalla sua gruccia. La indosso.
- Ebbene sì, quella noiosa di tua sorella ha una passione per l'animalier. Soprattutto il leopardato.
- Ma no, Nene, che dici! Una pelliccia!
- Guarda che è finta, eh. Dai, provala, secondo me a te sta ancora meglio.
Eccitata e timida allo stesso tempo, si toglie il montone nero e la prova.
- In effetti, non è male.
- Coi tuoi capelli è fichissima, altro che "non è male"!
- Sì, vabbè, ma sul lago sai come mi guardano?
- Sticazzi, bisogna imparare a dire "sticazzi". Se ti guardano è perché sei bella.
Ride.
- Comunque, no, questa non te la regalo, senti che non è morbidissima? Due volte che la indossi e si rovina. Ne troveremo un'altra.
- Ah, ok.
Fingo di vestirmi guardando altrove, intanto lei continua a rimirarsi allo specchio, in quella veste da adulta autorizzata a indossare ciò che le sta bene.

Mentre torniamo verso il tram, la fermo davanti alle vetrine di Max Mara. In vetrina, due dei miei modelli preferiti del loro storico cappotto cammello.
- E di questo cappotto che ne pensi?
- Uhm... sì, carino.
Sorrido. Mi sembra me quando mio padre cercava di farmi indossare vestiti di sartoria, mentre io andavo in giro con calze a rete e parigine a righe su anfibi.
- Lo so, per te è un po' troppo serio, ma - sempre perché sono noiosa -, io non vedo l'ora di vestirmi da sciura.
Abbassa lo sguardo sui prezzi. - Nene, ma costa 1200 euro questo cappotto! Quella pelliccia ne costava 39.
- Già, pensa questo come è morbido.
Continuiamo a camminare, lei si accende una sigaretta e mi racconta del nuovo tatuaggio che ha iniziato a fare.

La riaccompagno a casa, ci salutiamo e spio nei suoi gesti, fra le sue parole e nei suoi occhi per cercare di carpire la sua opinione sul nostro pomeriggio insieme.
Ci vediamo raramente, non sono un granché come sorella maggiore - l'ultima volta in cui ci siamo viste, ho parlato solo io, del mio lavoro, della mia stanchezza, della mia vita -, chissà se ho sbagliato su tutta la linea anche questa volta.
- Spero di non averti annoiata.
Sbuffa, alza le spalle, rotea gli occhi al cielo: - La pianti di dire che sei noiosa?
Touchè.
Mi mordicchio il labbro, messa con le spalle al muro: - Ok, ok. Ci vediamo presto?
- Lo spero. Grazie, Nene.
L'abbraccio.
- Ah, ehi, ti ho taggata su Instagram, nella story, così tutti vedono le cose belle che sai fare!
Annoda tre parole in un suono confuso, arrossendo. Poi saltella verso casa di nostro padre, con quella fretta di quando vuoi scappare dalle situazione troppo intense e inusuali.


Prima di scendere dall'auto, apro Instagram, scorro il suo profilo.
Mia sorella dipinge.
Dipinge un po' ovunque, ma soprattutto dipinge sulle ossa degli animali che le guardie forestali dei boschi del lago trovano morti o irrimediabilmente malati o feriti.
Cosa vuoi dire, a una che fa danzare i pennelli sulla morte in quel modo. 
Cosa c'è, ancora, da spiegarle.

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