Shuffle.

Sabato, 11 nov.

Sono le 21 passate, quasi le 22, ho appena finito di lavare i piatti della cena e di prepararmi la colazione per domattina. La crostata per te riposa sul davanzale della cucina, in bilico fra l'interno e l'esterno, in attesa che si raffreddi. Ho acceso un incenso, la candela sul tavolo, steso il bucato.
Sfoglio spazientita Che tu sia per me il coltello, di David Grossman. Cerco una sottolineatura che temo di non aver tracciato - probabilmente, a ventun'anni avevo evidenziato paragrafi che ora trovo indifferenti, mentre passaggi che ora agogno di rileggere mi sembravano totalmente ininfluenti, allora. 
Quanto spesso mi capita, di voler rileggere qualcosa che avevo lasciato correre, tempo fa.
Per di più, il libro è per la prima metà sottolineato con una di quelle matite rigide, severe, sottili, dal tratto appena visibile, per cui sfogliandolo velocemente ho paura di non afferrare le parole che mi servono.
Sì, è qualcosa di molto aderente a un sentimento di necessità, quello con cui setaccio avidamente le pagine di questo libro. In fondo, si legge spesso per questo: per riconoscersi, per trovare una comprensione più profonda di qualcosa che si stia vivendo, per non sentirsi soli in un sentimento. Empatia.
Lessi questo libro qualche anno fa, durante una vacanza all'Elba con mio padre. Mi stendevo al sole, sul terrazzo della casa, per tutto il pomeriggio: leggevo, sottolineavo, mi addormentavo per qualche istante, mi ritrovavo violacee ustioni sulla schiena o sullo sterno, a sera. L'anno seguente, lo regalai a un fidanzato: che gesto enorme e sconsiderato, regalare un mio libro, già letto, con tutti i miei appunti e le note a lato. Infatti, me ne rimpossessai, senza nemmeno troppo pudore, non appena lo ebbi lasciato: tornai a casa sua un pomeriggio - lui non c'era -, misi in un paio di valigie i miei vestiti e infilai Grossman in borsa.

Niente, non trovo quel paragrafo. E' la seconda volta che lo sfoglio, rileggendolo velocemente, eppure quelle parole che ricordo in modo netto non si vogliono far scovare.
Per un attimo, oggi, siamo somigliati a una scena. Una di quelle scene soffuse e anatomiche, animalesche e affettuose, nude e protette di cui questo libro zampilla.
Eppure, scomparsa.

Martedì, 14 nov, presto

Da qualche giorno ho un po' di ansia da futuro. Mi manca la certezza di star andando nella direzione giusta. Ventisei anni è ancora un'età in cui ogni mossa sembra decisiva: che se è vero che puoi stravolgere la tua vita dall'oggi al domani, è altrettanto vero che puoi imboccare strade che difficilmente si potranno abbandonare. Poi, io sono così: o vivo totalmente alla cieca, alla giornata, come un lupo selvatico che deve rendere conto solo a se stesso, oppure faccio il nido, mi accoccolo, metto in ordine i punti fermi e rimango a contemplarli, così, seduta sulla poltroncina con una tazza di tè a scaldarmi le mani, terrorizzata dall'idea che qualcosa possa divellere il mio personale sistema solare.
Anche se.
Anche se.
In realtà, poi, la verità sta nel mezzo: ho i miei punti fermi, ma - soprattutto in situazioni di stress - mi comporto come se non li avessi; ho conquistato una parvenza di equilibrio, e ciò non fa altro che aumentare la mia ansia di perderlo; 
ogni certezza può diventare una mancanza.

Martedì, 14 nov, tardi

Non faccio altro che scrivere, cancellare, scrivere. Mi addormento sistemando, nella mente, la punteggiatura dei periodi che mi scrivo in testa. Vado a camminare e scrivo, scrivo, scrivo. Ogni tanto mi registro anche. Corro sul tapis roulant e il ritmo sembra essere lo stesso delle mie parole. Rimango in auto ad ascoltare Coez che passa in radio e penso a un incipit.
Se almeno ci fosse una trama.
Invece no, è solo flusso, solo incertezze, solo momenti troppo belli perché scivolino via. A volte, descrivo cose solo per il gusto di come suonano, solo per il piacere di mettere una virgola fra quelle due parole, di tratteggiare una pausa esattamente dove la realtà non l'ha concessa, di fermare il ritratto di qualche sconosciuto alle casse del supermercato, qualche gesto, quel tono di voce.
Vorrei, vorrei, vorrei.
Ho un nodo in gola per quanto vorrei.
Non mi bastano le giornate, è chiaro. Ho bisogno di quattro ore, almeno, per depurarmi dal lavoro e dai suoi pensieri e riprendere un mio filo logico. Per capire anche solo cosa voglio mangiare per cena.
- Dovresti pensare anche alla tua di azienda.
- Ti metti sempre troppi impegni.
- Sei sempre troppo stanca.
Eppure, come vorrei, che sapessi le volte che mi addormento pensando a un titolo. Le volte in cui mi faccio la mappa concettuale degli argomenti di cui scriverei. Dei nomi che intervisterei.
E' solo martedì e sono già troppo stanca.
Oggi mi sono prosciugata, al lavoro. Alle 9 avevo già avviato gran parte delle preparazioni della cucina. Alle 10 scaricato e sistemato tutti gli ordini. Poi quell'ora di gare intellettuali e ridimensionamento del mio bisogno di stimoli. Poi il servizio, oggi serratissimo, solo piatti miei.
Alle 14.30 ero un fascio di nervi, con l'adrenalina a mille e la tachicardia.
Troppi saliscendi. Ansia, imbarazzo, soddisfazione, compiacimento, fretta, fatica fisica, sentirsi insignificante, doversi giustificare anche per dove andiamo a bere il lunedì sera, guardare il resto del mondo relazionarsi e costruire e dover rimanere dietro a un vetro. 
- Ti sta venendo proprio una bella mano coi risotti. 
- A mantecarne 3 kg al giorno, vorrei vedere.

Alla fine, poi, si rimane sempre incagliati dietro i non detti.

Martedì, 14 nov, più tardi

Fra un mese è il compleanno di mio padre, ho appena realizzato.
Fra un mese e dieci giorni, quello di mia sorella.
Fra un mese e undici giorni, Natale.
Sospiro.
Vorrei che tutto diventasse un po' più naturale. Come quando io e te ci sediamo sul piatto della doccia a parlare, con l'acqua calda a pioverci addosso. O come quando capita di metterci a letto di pomeriggio, a recuperare qualche ora di sonno - che poi finisce sempre che tu dormi e io mi giro, ti accarezzo, ti do un bacio sulla schiena, cerco una tua mano, ti abbraccio, mi struscio un po', mi do per vinta e mi rigiro, ah, ci sei cascato, torno da te, dai, svegliati, facciamo qualcosa.
Ogni tanto penso a tutti i gesti che sono solo nostri, che ho imparato con te, che non usciranno mai da noi. La nostra lingua privata.
- Nemmeno oggi abbiamo trovato un nome.
- Ma come, Livia!
- Intendevo per la rivista, amò.

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