Tutti assolti.
Rimango sotto il getto d'acqua calda per minuti. Ore. Lassi di tempo indefiniti.
Con le scapole a pungere le piastrelle scaldate dal vapore che, ormai, offusca la stanza.
Il desiderio di sciacquarsi di dosso tutta la giornata - lavarsi via lo schifo e la vergogna, il disagio, la sensazione di essere sola, di non poter comunicare con nessuno, la paura di essere in trappola, una trappola folle in cui pensi di aver tutto sotto controllo e SBAM a un tratto apri gli occhi e ti ritrovi in un angolo, faccia al muro, senza possibilità di muoverti - si è trasformato in agognato desiderio di sciogliersi. Scomparire. Scivolare via. Diventare acqua con l'acqua.
Tutti assolti.
Non riesco a non raggelarmi rivedendo la scena di tu che mi dai la guancia anziché le labbra.
Sono così oscena?
.
Poi, ci sono cose inspiegabilmente in grado di darmi speranza.
Una di queste era la piantina di avocado, prima che lo potassi.
Ora ho quei fiori di genzianella che mi hai regalato per le tisane. Li faccio cadere nella tazza e rimango ad osservarli: appena toccano il pelo dell'acqua rimangono impassibili - impassibili fiori appassiti? -, così leggeri da sopravvivere, intoccabili, eterei, dei misteri blu che non vengono scottati dall'acqua fumante. Li sposto con le dita, sembrano ninfee sdraiate - c'era un parco, in un paesino vicino al Lago, con uno specchio d'acqua artificiale pieno di ninfee; ninfee e aironi, in primavera.
Sono io ad annegarli, alla fine, affinché infondendosi rilascino i loro amari benefici. Eppure son belli e ammirabili anche come creature acquatiche: il loro blu violaceo s'accende, l'accenno di gambo torna verde, volteggiano come certi pesci dalle pinne varie e voluttuose, che si collezionano.
Rimango ad osservarli, arrampicata sul pensile della cucina, in accappatoio, con un asciugamano annodato in testa. Quando bevo qualche sorso di tisana mi sfiorano le labbra, sono riluttante a pescarli e gettarli. Ho la mente totalmente spenta, non capisco se sia anestesia o stanchezza.
Devo scrivere la bozza del programma dei corsi, un comunicato stampa, qualsiasi cosa. Devo iniziare a lavorarci, ho la sensazione che tutto sia sabbia fra le dita, che sfugga, rubato, che si debba fare tutto e immediatamente.
Invece, vorrei solo entrare in quello studio, giovedì, e piangere. Piangere tantissimo.
E poi arrabbiarmi, urlare. Che cazzo stiamo facendo.
- Sto ancora aspettando l'arrosto che esce da solo, quanto?
Dieci secondi di silenzio, poi: - 4 minuti.
- Non l'hai ancora messo in forno?
S'immobilizza, fissa il tagliere, le pinze in mano, un piatto mezzo concluso davanti.
- No.
- Ho chiamato questa comanda almeno quattro volte, è arrivata alle 13.18 e sono le 13.32, si può sapere perché non è ancora in forno, quel cazzo di arrosto?
Mi giro. Allineo le comande. Guardo dritto davanti a me, la schiena rigida. Cerco di respirare con calma.
Arrivano altre comande. Alle 13.37 mi avvicino al forno.
Lo apro.
Ne estraggo la placchetta con tre fette di lonza di maiale rinsecchite e quattro foglie di radicchio carbonizzate.
La poggio sulla sua partita.
- Rifallo.
Torno al pass. Serro la mandibola, sento la tempia pulsare.
Quattro minuti e trenta secondi dopo, l'arrosto arriva al pass. Le fette hanno cotture non uniformi, il radicchio sembra il ciuffo mummificato di un upupa, la salsa sporca il bordo del piatto.
Suono il campanello: - Arrosto al 34.
Sfilo il torcione dal laccio del grembiule, lo piego a lato del pass. Esco dalla cucina, furente.
Penso sia lecito, di tanto in tanto, volersi spegnere per un po'.
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