Vigilia.

Il termometro dell'auto segna meno tre gradi.
La spengo, apro la portiera. M'infilo la borsetta a tracolla, scendo. Gli avanzi dell'ultima nevicata crepitano sotto lo stivale. Cammino svelta fino al molo, stringendo i lembi del cappotto con una mano, cercando di tenerlo chiuso sulla gola. Trovo il lago.
Non sono esattamente una figlia di queste sponde, anzi, le ho sempre un po' rinnegate e rifuggite - per quanto amassi gli spettacoli naturali che mi offrivano, le viste senza confine, i colori dei tramonti e delle albe, la loro fauna -, ma avverto sempre un senso di appartenenza quando vi faccio ritorno. Esco dall'autostrada e una certa euforia mi pervade. "Casa", sussurra qualcosa dentro di me, anche se le mie radici non sono qui.
Il lungolago è deserto. Ricordo le sere della Vigilia in libreria, a chiudere gli ultimi pacchetti con il corso vuoto fuori. Le luminarie sono più chiassose, quest'anno, tutte ammassate in Piazza del Popolo. Qualche nuovo negozio ha preso il posto di vecchie boutiques. Mi fermo a leggere i menù dei ristoranti, identici ogni inverno. Cammino fra i pochi passanti e tutti mi fissano, spostandosi mentre attraverso i loro gruppi: non capisco se siano persone di cui non mi ricordo o, semplicemente, io abbia un'aria troppo spavalda, con il rumore dei miei tacchi che rieccheggia nelle rughe strette del corso, i capelli gonfiati dall'umidità, il passo veloce di chi non vuole far credere a nessuno di essere tornato.

La statale è buia, l'asfalto luccica di ghiaccio e sale, non circola un'auto. Accendo gli abbaglianti e mi ricordo come fosse, guidare per queste strade. D'estate, d'inverno, di notte, al mattino presto, per andare al lavoro, per andare all'Università, per scappare di casa. Capisco perché non avevo paura di nulla. Ricordo le velocità che tenevo, ricordo le deviazioni per evitare i posti di blocco, a seconda dell'orario, ricordo quanto mi piaceva essere quella che guidava come se fosse sempre in gara.
Che, poi, le gare le facevamo per davvero.
Mi faccio aprire il cancello grande, inaspettatamente azzecco la manovra in un solo tentativo.
- Non hai avuto difficoltà a entrare.
- Già.
Il giardino di casa di mia madre è in discesa, coperto di neve.
- Sei pronta? - mi chiede mio fratello.
- No, ma va bene così.

Mia madre mi sembra sempre più minuscola. I vestiti pesanti dissimulano un poco la magrezza eccessiva, e io mi sforzo di non notarla.
Lei invece me lo dice subito: - Sei dimagritina.
Sono trascorsi dieci anni e ancora parliamo del mio peso.
Mi metto a tritare dell'erba cipollina, nel modo più lento e impreciso possibile - non voglio commenti sulla mia manualità, non voglio osservazioni sul mio lavoro, non voglio nessun nesso fra il mio essere cuoca e come cucino a casa. Pulisco il piano di lavoro, coltello e tagliere appena finisco.
- C'è una mia amica che lavora in un ristorante e quando viene a cena bisogna sempre fermarla, pulisce tutto, mette in ordine... sembrate sempre al lavoro!
Interpreto una risata, poco convinta: - Eh, sì, deformazione professionale.
Vado a cercare i gatti, mi distraggo col pastore tedesco. I canarini sono morti, purtroppo. 
Faccio un giro nella mia camera da adolescente, apro i cassetti della scrivania: i miei diari sono ancora tutti lì, i miei appunti, i miei libri. Tutto lì. Trovo qualche foto. La squadra di pallavolo, feste, gite scolastiche. Chiudo in fretta i cassetti, spengo la luce, torno in salotto.
Mia sorella è cupa, nonostante sia il suo compleanno. Mio fratello altrove.

A tavola ci sono io che parlo, articolo discussioni, faccio domande e gestisco il teatrino.
Nell'ordine, chiedo a mia sorella di: scuola, amici, vacanze, compiti, capodanno, equitazione, casa, vestiti, palestra. A mio fratello, invece: università, esami, un corso di approfondimento che è andato a fare a Pisa, cosa mangia a Pavia, fidanzata, quando vanno a convivere, come va l'Erasmus di lei, quando torna.
A mia madre: non riesco a farle domande. Mi sembra tutto forzato, innaturale, faticoso, senza senso.
Soprattutto, ho la netta sensazione di non voler sapere niente. E di non volerle far sapere niente.
A ogni minuto di silenzio mangio un boccone di troppo.
Il vino non mi piace.
Mio fratello cerca d'insegnarmi a fumare la pipa. Mi brucia la gola e non riesco a coordinare l'espirazione senza aver aspirato il fumo. Non sarò mai Virginia Woolf, ma già si sapeva.


Per dolce c'è il tronchetto con la crema di marroni. Senza panna a ricoprirlo questa volta, solo zucchero a velo.
Mia madre lo preparava sempre, quando eravamo piccoli. Sul mobile ha lasciato il foglietto della ricetta: è ancora lo stesso. Un post-it bianco, non più adesivo, scritto con inchiostro blu e le lettere tonde di qualche sua amica.
Lo assaggio. Ogni tanto mi stupisco di come certe ricette riescano alla perfezione anche se eseguite da persone che non hanno la minima competenza tecnica a riguardo.
Il biscuit non è spugnoso, ma è leggero, con la giusta umidità, non si spezza in alcun punto. L'alveolatura è fitta, minuscola, uniforme. Lo spessore identico in ogni punto. Persino l'aroma chimico della vanillina è come lo ricordo.
In più, ho un debole per la crema di marroni.

Un po' vorrei abbracciarla. Un po', chiudermi in auto e ripartire è un sollievo immenso.

Il viaggio di ritorno trascorre a 80 all'ora in autostrada. 
Fumo un paio di sigarette, ascolto Ligabue, piango un po'. 
Mi sento un po' sola, fa freddo, ho mangiato troppo, vorrei rapire mia sorella.
"Esperimento fallito", scrivo al mio doc, quando arrivo a casa.

E' già Natale. Guardo i tuoi video su Instagram. 
Muoio di nostalgia per qualcosa che non ho mai avuto.

Metto su l'acqua per una tisana, intanto svuoto lo zaino che mi ero preparata per rimanere la notte da mia madre. 

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