Ambiente spaziale bianco.

Stamattina ho aperto gli occhi.
Tolto la modalità aereo al telefono.
Sono rimasta un po' a letto. Il sonno chimico mi lascia sempre molto stordita, come dovessi ricordare alla mia mente le parti del suo corpo, una ad una. Mi sono toccata la pancia, troppo vuota, dopo aver annullato la cena di ieri sera.
Ho alzato la tapparella a metà - tanto era troppo buio perché ci fosse della luce da far entrare.
Ci sono voluti dieci minuti, prima che mi ricordassi nitidamente di tutto.
Mi sono guardata allo specchio.
- Dai, su.

Oggi abbiamo cambiato menù.
Probabilmente pochi immaginano cosa succeda in una cucina il giorno del cambio del menù - soprattutto in una cucina come la nostra, dove mancano almeno due mani e lo chef risponde al telefono ore dopo che tu hai trovato il modo di cavartela.
Alle 9.30 sono schizzata fuori a comprare degli ingredienti che non erano stati consegnati. Ho girato tre negozi, pedalando incauta fra marciapiedi e traffico, con la giacca aperta e la divisa sotto.
Ho sempre una schedule in testa, almeno fino alle 17.
Calcolo anche gli imprevisti. 
Prevedo anche i cali di umore. I picchi di ansia. Quando mi verrà da piangere.
Caffè. Consegna ortofrutta. Uscita per cercare semi di canapa non consegnati. Rientro entro le 10, per l'arrivo del pesce. Impostare le preparazioni lunghe, mettere su i brodi. Dieci minuti con il capo. Sistemare il magazzino. Lavorare le verdure. Uscire sette minuti perché ti manca l'aria.
Controllare Instagram. 
Distrarsi durante il briefing con la sala perché con la coda dell'occhio ti sembra di aver visto una bicicletta gialla.
- I. oggi non c'è?
- No, è al Gallia.
- Certo che stasera sarà una prima sera impegnativa, al Socialist.
- Passi?
- No, non posso.
- Capisco.
- Pensavo che per l'avocado toast potremmo fare una polvere di pomodoro al forno, comunque.

Alle 14 ho respirato. Il servizio si stava calmando, la cucina aveva abbassato il ritmo, tutti i nuovi piatti avevano ricevuto solo complimenti.
Sono uscita a prendere un bicchiere d'acqua. Ho guardato fuori, ancora una volta, poi verso il tavolo dove si siedono di solito, a pranzo.
Hanno iniziato a pungermi un po' gli occhi, ho bevuto tutta l'acqua in tre sorsi, sono rientrata in cucina. Ho chiuso la porta scorrevole in vetro.
Ogni tanto riesco a ragionare per scompartimenti. Stagni.
- Cazzo, ragazzi, servizio grandioso. Bravissimi. - ho esclamato dopo aver contato le comande.
I miei erano provati, ma sorridevano.
Io ero felice del nostro lavoro. Soddisfatta. Piena di adrenalina.
Chi l'avrebbe detto che sarei finita a cucinare ramen ed entusiasmarmi per delle verdure al Green Egg.
Passa il capo, apre la porta. Si sfila un auricolare.
- L'insalata era fantastica.
Annuisco, mentre sento due fossette puntarmi le guance.
[Ci sono due insalate, ora, in menù, per le quali non ho dormito la notte, settimana scorsa il mio cervello faticava a trovare connessioni fra ingredienti, faticava a concentrarsi su qualsiasi oggetto, oggi - invece - ero piuttosto appagata dal risultato.]


Alle 15.30 sono rimasta sola in cucina.
Prima di andarsene, Gaia mi ha messo una mano sulla spalla.
- Passa tutto, baby. Un giorno alla volta.
Ho annuito. Avrei solo voluto piangere.

Commenti

Post più popolari