La neve a marzo.

Sto pulendo gli shiitake per il ramen del pranzo - tolgo a ognuno di loro la punta del gambo, mezzo millimetro o poco più, a seconda di quanto è fibroso o rovinato -, sento l’odore che fa l’olio quando si scalda troppo, mi volto verso la stufa, lancio un’occhiata di rimprovero al collega.
- Scusa, Agnese. - mi fa sempre ridere, quando pronuncia il mio nome col suo accento sudamericano, aggiungendoci tre o quattro esse, spesse, ingombranti, divento tutta una esse.
- Lascia, faccio io.
Butto l’olio bruciato, passo la padella con un foglio di carta assorbente, la rimetto sull’induzione, ci verso altro olio.
 Con lo sguardo salto oltre la stufa, oltre il mio collega, oltre le mensole e il vetro che circonda tutta la cucina.
Esco.
- Ma che fa Asif fuori in mezze maniche, vuole ammalarsi?
Il nostro lavapiatti sta placidamente portando i contenitori della spazzatura dal punto di raccolta al retro del ristorante, con la sua camminata indifferente, la lentezza con cui fa ogni cosa, quella pancia prominente e curva sulla quale si posano già dei fiocchi di neve.
- Ma che vuoi che gliene freghi, quello ha fatto la guerra. - irrompe lo chef, entrando in cucina proprio in quel momento.
Non chiedo, penso solo alle brutte, larghe, in rilievo e violacee, cicatrici che Asif ha sulle braccia intere, che siano tagli o buchi, non ho mai indagato, e, anche questa volta, mi faccio bastare quelle parole.
Dopo qualche gambo che salta via, dai funghi alla spazzatura, decapitato dallo spelucchino, sto già pensando ad altro.
Asif rientra, serafico, con gli auricolari nelle orecchie.
Sta seguendo un corso d’Italiano, mi ha detto l’altra sera, così potrà fare il corriere sui camion e iniziare a vivere decentemente.

Amo questo lavoro perché, in infiniti modi, mi schianta la realtà in faccia ogni giorno.

Stamattina D. è entrato dalla porta, s’è scrollato addosso un po’ di neve, ha subito intercettato il mio sguardo - stavo spaccando i cartoni degli ordini appena ricevuti.
Ieri sera mi aveva promesso un messaggio, in mattinata, mai arrivato.
- Non so da dove iniziare a parlartene.
Non ho risposto.
- Non so nemmeno se sia il caso.
Ho raddrizzato la schiena, accatastando l’ultimo cartone, mi sono sistemata una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro.
- È che m’importa di tutto. E la maggior parte delle volte è un problema. - dico.
D. ha chiuso la conversazione con uno dei suoi mezzi sorrisi sardonici. Ha appeso la giacca, infilato un auricolare, l’iPhone stava già squillando.

Ogni tanto, mi defilo dalle situazioni. 
Fingo di fare solo il mio.
Fingo che mi basti eseguire i miei compiti e ricevere un buon voto.
Poi, ci sto male.
Poi, rimango solo io a guardarmi in quello specchio.

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