Bonnie e Clyde

"Vicino è troppo, ma lontano è troppo poco.”
Sempre.
Tornando dal lavoro pedalo verso ovest, un’infinita strada diritta all’imbrunire. A ogni semaforo cerco di fermarmi in modo che, guardando il cielo, il colore del semaforo corrisponda a una sfumatura del tramonto: il rosso brillante è un punto preciso, nella scala dal cobalto al ruggine.
Pedalo con gli occhi umidi, un po’ per il freddo, un po’ per lo smog, un po’ perché mi si chiude la gola alla fine di ogni giornata, nel silenzio, nelle distanze che mantengo intatte per non sentirmi soffocare.
Ripenso al sogno dell’altra notte, al viso malato di mia madre che prendevo fra le mani, al senso di colpa che mi divorava mentre osservavo la sua pelle, la velatura opaca sul suo sguardo, le ossa che solcavano il suo sterno. 
Apro Whatsapp, cerco la nostra conversazione. Gli ultimi messaggi risalgono all’anno scorso, io non le ho mai risposto.
Seleziono un’altra conversazione, scrivo un messaggio, lo cancello. Invio un vocale con tutto un altro tono.
China la testa, Agnese. China sempre la testa.
“Se le relazioni sono un do ut des, è naturale che quando non riceve affetto o riconoscimento senta di aver sbagliato qualcosa, di non aver fatto abbastanza per meritarselo”
Ogni volta percorro col centro morbido del polpastrello lo spigolo della scrivania in legno scuro, seguo con l’unghia le venature, mi fisso le mani segnate, irregolari, disidratate.
Poi, ogni tanto, osservo gli alberi del giardino.
Finisco per piangere mezz’ore intere.
“Mi sembra di avere le spalle al muro, è troppo, la mia vita è troppo, non ci riesco.”

Come settimana scorsa al telefono con te, tu, che chissà come hai fatto a sopravvivermi.
A sopravvivere in mezzo a tutta questa diseducazione emotiva.
“Voglio starmene un po’ da sola.”
“Be’, mi sembra sbagliato.”
“Come fai a dire che sia sbagliato? E’ normale voler stare da soli.”
“No, Agne’, è normale voler stare insieme.”

“Mi dice qualcosa che la emoziona?”
“Mi vengono in mente diverse situazioni, ma penso di confondere l’adrenalina con l’emozione.”
“Ad esempio?”
Continuo a pensare che ci siano cose di te che nemmeno il tuo terapeuta voglia sapere.

“E’ arrivato?”
“Sì, ti aspetta fuori."
Attraverso la strada davanti ai fanali della Cinquecento grigio scuro (quattro lunghi passi ondeggiando sugli stivali alti, con il cappotto lungo a muoversi attorno alle mie caviglie, mentre guardo per una frazione di secondo l’uomo al volante).
“Ciao.” salgo, mi sistemo i capelli sciolti su una spalla sola.
“Ciao cara, come stai?”

Dopo un giro dell’isolato rientro nel locale, mi faccio presentare al tuo tavolo, sorrido.
“Anche lei è una produttrice?”
“Sì, ma di pane.”
Mi perdo nei qualunquismi sulla panificazione per qualche istante, poi torno al bancone.
Tu mi affianchi.
“Molto posh il tipo sulla Cinquecento”, commento, sorseggiando il mio gin tonic.
Tu ridi.

Ti ricordi, che ci chiamavano Bonnie e Clyde.


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